Le tartarughe marine sono seriamente minacciate dalle attività antropiche. In particolar modo, la pesca e l’inquinamento, sono tra le principali cause che stanno portando all’estinzione questa specie.
Le tartarughe marine sono animali straordinari. Popolano i nostri mari da circa 150 milioni di anni, quando i dinosauri dominavano la terra, ed è proprio da questi che discendono. Forti, robuste e perfettamente adattate per vivere in un ambiente ostile e impetuoso, trascorrono la loro vita in mare sin dalla nascita ma non sono pesci bensì rettili.
Hanno i polmoni e per respirare devono emergere in superficie ad intervalli regolari per poi tornare ad immergersi in apnea per cacciare e riposarsi. Possono rimanere sott’acqua fino a 90 minuti e spingersi fino ai 100 metri di profondità.
In quanto rettili, sono animali eterotermi o a sangue freddo; quando raggiungono profondità elevate per nutrirsi, la loro temperatura corporea diminuisce e il metabolismo rallenta quindi, per evitare l’ipotermia, devono tornare in superficie per riscaldarsi.
Il carapace delle tartarughe marine, formato da placche ossee vascolarizzate, si comporta come una sorta di pannello solare che cattura l’energia e il calore dei raggi del sole stabilizzando la temperatura corporea.
Tutte queste e tante altre caratteristiche anatomiche e fisiologiche, le rendono animali davvero incredibili, che sono sopravvissuti per milioni di anni sul nostro pianeta adattandosi ai cambiamenti causati dai diversi fenomeni di estinzione di massa che hanno caratterizzato la storia del nostro pianeta.
Oggi, l’impatto delle attività umane su questi animali ha raggiunto livelli altissimi, e sta portando le tartarughe marine sempre più vicine all’estinzione.
L’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), ha stilato una lunga lista di animali in pericolo che viene misurato con diversi livelli di minacce.
Basti pensare che su sette specie di tartarughe marine esistenti, tutte e sette sono inserite nella lista rossa dell’IUCN.
La popolazione di Caretta caretta, specie emblematica del mar Mediterraneo, viene classificata a livello globale come VU (Vulnerable), ovvero vulnerabile, nonché il terzo livello di rischio.
Per quanto riguarda la popolazione Mediterranea, la stessa Caretta caretta viene classificata come EN (Endangered), ovvero in pericolo e quindi, addirittura un gradino più in alto nella classifica del rischio estinzione.
Le cause che stanno portando le tartarughe marine all’estinzione sono molteplici e possono essere divise in due categorie: minacce indirette come il riscaldamento globale e la riduzione delle zone di nidificazione e minacce dirette.
Pesca, inquinamento e traffico nautico appartengono a questa seconda categoria di pericoli diretti che ogni anno uccidono decine di migliaia di tartarughe marine.
Sicuramente la minaccia principale per le tartarughe marine è la pesca. Ogni anno solo nel Mediterraneo, vengono catturate accidentalmente dalla pesca commerciale, 150.000 tartarughe marine. Di queste 50.000 muoiono durante la cattura e la restante parte viene abbandonata al proprio destino, che nella maggior parte dei casi è la morte.
Non avendo alcun valore commerciale, le tartarughe marine vengono considerate come specie “Bycatch”, ovvero soggette a cattura accidentale.
In altre parole, il pescatore ha come obiettivo la cattura di altre specie, ad esempio tonno e pesce spada, destinate ad essere commercializzate ma allo stesso tempo cattura anche specie protette, a rischio estinzione o semplicemente non commerciabili che vengono sistematicamente rigettate in mare in fin di vita.
Anche se possono essere catturate con diversi metodi di pesca, quelli con maggiore impatto sono due: il palangaro o palamito e la pesca a strascico. queste due tecniche di pesca riforniscono i mercati ittici di tutto il mondo della maggior parte del pesce che viene venduto.
Sia nel caso della pesca con il palangaro sia in quello della pesca a strascico parliamo di attività che si svolgono su vasta scala e a livello industriale, ovvero l’unico modo per soddisfare la crescente domanda di prodotti ittici.
I pescherecci che lavorano con il palangaro per pescare tonno e pesce spada, possono arrivare a calare in mare anche fino a 10.000 ami e coprire distanze che raggiungono i 50 km e i pescherecci a strascico possono trainare le loro reti fino a 8 ore consecutive.
Anche la piccola pesca artigianale, svolta nel sottocosta non è estranea al fenomeno, tuttavia è difficile stabilire quanto questa incida sul totale delle catture accidentali che avvengono incessantemente ogni giorno.
Il palangaro è uno strumento di pesca costituito da una lenza di grosse dimensioni che può raggiungere anche i 50 km di lunghezza denominata “lenza madre”; su questa, a distanze regolari vengono collegati degli spezzoni di lenza più corti detti “braccioli”.
Il bracciolo è la parte della lenza su cui viene montato l’amo di grosse dimensioni al quale viene applicata un’esca.
Usata principalmente per la pesca del tonno e del pesce spada, il palangaro è uno strumento che prevede l’utilizzo di esche quali sgombri, sarde e totani che sono prede molto nutrienti e molto ambite anche da altre specie che condividono lo stesso habitat del tonno e del pesce spada.
Tartarughe marine, squali delfini e uccelli marini attratte da queste esche molto appetibili si trovano ad abboccare a questi ami per poi essere, come di consueto, rigettate in mare in fin di vita con danni agli organi interni provocati dall’amo e dalla lenza che vengono ingeriti.
Questo tipo di pesca è diffusa in tutto il mondo e viene effettuata di frequente anche in alcune aree specifiche del Mediterraneo.
Il mar Ionio, in particolare il tratto del basso ionio reggino è una di queste zone; le grandi profondità e le forti correnti, lo rendono adatto per questo genere di pesca e inadatto per lo strascico, che viene praticato per lo più nel mare Adriatico e generalmente in zono dove i fondali sono più regolari.
E’ una delle tecniche di pesca più impattanti sugli ecosistemi marini. Pescherecci di grosse dimensione con motori molto potenti trainano sul fondo del mare una rete di grandi dimensioni che, grazie all’utilizzo di strumenti denominati divaricatori, raschia il fondo creando un grande polverone, che attira molte specie di pesci davanti all’imboccatura della rete che, essendo trainata dal peschereccio cattura tutto ciò che si trova davanti all’imboccatura.
Si tratta di un tipo di pesca non selettiva e, quando questa pesca viene effettuata a una profondità compresa tra i 20 e i 100 mt, le probabilità di cattura di tartarughe marine ed altre specie “ByCatch” aumentano sensibilmente.
Inoltre, la durata di ogni “strascicata” può superare di gran lunga i 90 minuti (tempo massimo di apnea per le tartarughe marine) e per questo è molto comune rinvenire tartarughe marine spiaggiate e morte per annegamento
Sono decine le segnalazioni di tartarughe marine che vengono purtroppo trovate già morte sulle spiagge della provincia di Reggio Calabria e Messina, un numero molto più grande delle circa cinquanta tartarughe all’anno che riusciamo a soccorrere e a salvare.
Un’altro problema molto importante per le tartarughe marine è l’inquinamento e in particolare l’inquinamento da plastica. Basti pensare che nel Mar Mediterraneo ogni giorno finiscono 230.000 tonnellate di rifiuti di plastica.
Questo materiale può causare diversi problemi alle tartarughe marine; si va dall’intrappolamento all’occlusione intestinale fino ad arrivare alla morte per soffocamento.
In superficie sono presenti molti rifiuti, circa il 50% proveniente dalle attività di pesca, come per esempio corde, reti, lenze, nylon plastiche di vario tipo che rappresentano un serio problema infatti, le tartarughe marine che si intrappolano in queste isole di rifiuti alla deriva sono sempre di più. Questi possono provocare la perdita degli arti e addirittura in alcuni casi la morte.
Un’altro problema causato dalla plastica è l’ingestione. Sacchetti o detriti plastici filamentosi vengono scambiati per meduse o altri piccoli organismi gelatinosi di cui le tartarughe si cibano regolarmente e di conseguenza vengono ingerite.
Non essendo digeribile, la plastica, una volta raggiunto lo stomaco non viene digerita e può causare occlusione intestinale e sensazione di sazietà che portando la tartaruga a smettere di alimentarsi e quindi a morire per malnutrizione.
Abbiamo trovato plastica anche nello stomaco di tartarughe nate da soli pochi giorni. Come nel caso di “Penny” che durante la degenza al CRTM di Brancaleone ha defecato 14 pezzi di micro-plastica.
Ma l’inquinamento non è solo plastica. Molte volte abbiamo soccorso tartarughe marine in difficoltà con problemi causati dal petrolio, o da altri rifiuti come cerchioni di bicicletta.
Esiste anche una terza causa di morte per le tartarughe marine: il traffico nautico. Come centro di recupero riscontriamo molto questo problema soprattutto per le tartarughe marine recuperate nella zona dello Stretto di Messina, un tratto di mare in cui navigano moltissime imbarcazioni di ogni tipo e dimensione.
Dovendo stare in superficie per respirare e regolare la temperatura corporea attraverso i raggi solari, le tartarughe marine sono estremamente vulnerabili agli scontri con gli scafi o le eliche di navi e imbarcazioni da diporto.
Traghetti e imbarcazioni da diporto che viaggiano a velocità elevate non lasciano scampo alle tartarughe marine che non non appena si accorgono del pericolo imminente vengono travolte senza avere possibilità di fuga.
Gli impatti, siano con la chiglia o con le eliche, sono causa di fratture del carapace e perdita degli arti, emorragie interne e morte.
Anche in questo caso sono moltissime le segnalazioni di animali che vengono ritrovati sulla spiaggia già morti a causa delle collisioni.
Il sesso delle tartarughe marine dipende dalla temperatura dell’ambiente circostante, infatti, a seconda delle temperature della camera di incubazione dove sono deposte le uova, si avra un maggior numero di nascite di individui maschili o femminili a seconda che la temperatura media aumenti o diminuisca.
La temperatura ideale è di 27°, con questo valore all’interno della camera nasceranno il 50% di maschi e il 50% di femmine. A temperature più alte si avrà una percentuale di femmine maggiore e con temperature più basse, saranno i maschi a essere in maggioranza.
Diversi studi hanno dimostrato scenari preoccupanti in cui entro il 2070, a causa del riscaldamento globale, molti siti di riproduzione verranno abbandonati a causa delle temperature troppo alte della sabbia che renderebbero impossibile l’incubazione delle uova.
Le ricerche condotte sui nidi deposti in Calabria, attestano attorno al 70% il numero di individui femmine per ogni nido. Si prevede quindi una tendenza che porterà ad una diminuzione dei maschi nel corso degli anni che porterà sicuramente a problemi nelle dinamiche delle popolazioni di Caretta caretta nel mar Mediterraneo.
Al problema delle temperature si somma quello della riduzione delle aree di nidificazione. La riduzione degli habitat di nidificazione è un serio problema per la specie: il 70% delle spiagge italiane resta occupato da stabilimenti balneari durante tutta la stagione estiva, rendendo le operazioni di nidificazione impossibili per le Caretta caretta.
A questo si aggiunge l’occupazione delle spiagge per la realizzazione di infrastrutture turistiche come passerelle e lungomari nonché l’erosione costiera e la rimozione della vegetazione della duna per assecondare le “esigenze” del turismo di massa, che porterà ad un sensibile peggioramento e ad una progressiva perdita di aree ideali alla nidificazione per questi animali.
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